La proposta di Tiralongo: «Più salite tra i dilettanti, altrimenti gli scalatori non emergono»

Tiralongo
Paolo Tiralongo del Team Bike Sicilia in una foto d'archivio al Gran Premio Liberazione di Roma
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Stilando un bilancio di metà stagione, Paolo Tiralongo parte da una certezza: quella, quantomeno, d’essere partiti, d’aver messo in moto un meccanismo che (è la sua speranza) col tempo possa trainare il movimento ciclistico meridionale.

«La squadra, il Team Bike Sicilia, l’abbiamo allestita in tre mesi, con tutte le difficoltà e le urgenze del caso. L’organico, ad esempio, è buono ma in rapporto al tempo che avevo a disposizione: c’è qualche ragazzo che avevo alla Palazzago, ci sono un paio di corridori secondo me validi ma ancora impegnati con la scuola, e poi c’è Andrea Bruno, il capitano, l’atleta più esperto e di maggior affidabilità. Infatti è l’unico dei miei ad aver partecipato al Giro Next Gen».

Era uno dei sei corridori scelti da Amadori e Scirea. Sei soddisfatto della sua gara?

«Sinceramente no, abbiamo già avuto modo di parlarne e lui sa come la penso. Si era preparato bene, trascorrendo quindici giorni in altura sull’Etna. Me lo aspettavo più pimpante nelle tappe di montagna, quelle più adatte ad uno scalatore come lui, ma purtroppo non si è visto. Mi ha spiegato che il livello era altissimo e non fatico a crederlo, perché il Giro l’ho seguito abbastanza bene anche io: però, secondo me, poteva e doveva correre diversamente».

Come?

«Io glielo avevo detto: hai l’onore di vestire la maglia della nazionale in una gara come il Giro, fai il possibile per metterti in mostra perché hai una chance unica. Ecco, io credo che avrebbe potuto buttarsi maggiormente all’attacco. Non intendo necessariamente concentrarsi sulla classifica generale, ma farsi notare in testa al gruppo e nelle fughe di giornata. Ci sono state, un paio sono anche arrivate, è stato un peccato non entrarci. E non ne faccio una questione di risultati, ma di piglio».

Da quel punto di vista, secondo te, come vi state comportando complessivamente?

«Non posso lamentarmi. Per essere una piccola squadra, e considerando che alcuni ragazzi sono ancora alle prese con la scuola, l’intraprendenza non ci manca. È questo che chiedo e voglio dai miei ragazzi: dinamismo, coraggio, spirito di sacrificio. Il risultato è secondario, quello che conta è la prestazione. Il risultato che arriva senza essere supportato da una prestazione quantomeno dignitosa è estemporaneo, casuale, difficile da ripetere. Chi corre in una certa maniera, invece, prima o poi i risultati li raccoglie».

Cosa intendi quando dici “in una certa maniera”?

«Io voglio corridori che non abbiano paura di non essere all’altezza. Succede di essere, o di sentirsi, inferiori agli altri o al contesto di cui si fa parte, ma bisogna comunque reagire. A rimanere nella pancia del gruppo, sempre al coperto, senza mai prendere un’iniziativa, non s’impara nulla. Cos’è il ciclismo lo si capisce attaccando, provando ad indirizzare la gara, tentando di rimanere il più possibile nel vivo della corsa e attaccati ai migliori. Io mi arrabbio quando siamo anonimi, non quando non vinciamo».

Ma dopo quattro mesi di gare qualche rimpianto dovrai pure averlo.

«Forse Bruno sarebbe potuto entrare tra i primi dieci in alcune gare come il Belvedere e la Torino-Biella, corse in cui ha chiuso rispettivamente ventiduesimo e quattordicesimo, ma non è che ci sia successo qualcosa di grave di cui rammaricarsi. Tutt’al più, normali dinamiche di gara. Comunque ha chiuso anche ottavo a Pontedera e decimo al Matteotti, due buone prove del calendario italiano. Il quale, tuttavia, secondo me è da rivedere, perché per uno scalatore come Bruno ci sono davvero pochissime occasioni a disposizione».

È un tema che ciclicamente ritorna ogni anno nei giorni del Giro d’Italia.

«Non dobbiamo stupirci se il nostro movimento fa fatica ad esprimere scalatori di buon livello. Quante corse ci sono per permettere a certi corridori di sviluppare le loro qualità? Pochissime. Alcune si concludono sì in salita, ma dopo centocinquanta chilometri di pianura: tanto vale organizzare una cronoscalata, non è così che s’incentivano gli scalatori a migliorare. Il calendario dilettantistico italiano, a mio modo di vedere, andrebbe pesantemente rivisto: nei chilometraggi e nelle difficoltà altimetriche. Forse i circuiti con uno strappo hanno fatto il loro tempo, la norma non possono essere corse di centoquaranta chilometri. Un Giro d’Italia o un Tour de France significano cinquantamila metri di dislivello, se i ragazzi non si abituano fin da quando sono dilettanti diventa complicato esprimere atleti di un certo tipo».

Per non parlare delle gare a tappe: per molti atleti italiani, il Giro Next Gen è stata la prima della loro stagione.

«E rischia anche di essere l’ultima, non è incredibile? Dal mio dilettantismo sono passati diversi anni, ma il calendario era molto più folto e vario. C’erano gli appuntamenti per gli scalatori e c’erano le gare a tappe: oltre a quelle tre o quattro che hanno resistito, mi vengono in mente il Pesche Nettarine, il Giro delle Regioni, la Settimana Bergamasca. Il dilettantismo, specialmente quello che possono permettersi certe squadre, è giusto che sia un semiprofessionismo, quindi credo sia giusto alzare i chilometraggi e rivedere i percorsi. Le corse vallonate di centotrenta chilometri non possono essere il nostro pane quotidiano, altrimenti non andiamo da nessuna parte e la categoria degli scalatori rischia di estinguersi».

Come prosegue la vostra stagione?

«Intanto domenica mi aspetto un bel campionato italiano da Bruno. Il tracciato è esigente, se dovesse far caldo lo finiranno in pochissimi. Poi, a luglio, non correremo, così chi ha accumulato più giorni di gara tirerà il fiato e chi, invece, è stato impegnato con la maturità avra tempo e modo di prepararsi a dovere. Voglio che i miei corridori si divertano e un corridore si diverte soltanto se va forte e se si sente nel vivo della gara, ma per non subire la corsa bisogna per forza allenarsi bene. È una ruota e prima o poi tutto torna».